I primi furono i leghisti. Quando al quarto scrutinio Irene Pivetti fu eletta Presidente della Camera, la sensazione di essere stati vinti da un’orda barbarica guidata dal celodurismo di Bossi era palese negli occhi e nei cuori di tutti. Su quella poltrona occupata in passato da Sandro Pertini, Nilde Iotti, Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano, si stava accomodando la “Principessa dei barbari”: trentunenne testimonial di un cattolicesimo anticonciliare mai visto.
Diciannove anni dopo ci si ritrova alla fine di quella seconda Repubblica partita dalle macerie del dopo-terremoto “Tangentopoli”. Ma se è pur vero che “il grillo canta sempre al tramonto”, i nuovi barbari scrivono il proprio nome sul bicchiere di plastica per evitare gli sprechi e si presentano in Parlamento con un apriscatole perché convinti di aprire (ideologicamente) le camere. L’unica differenza con gli “originali” -che in greco erano chiamati βάρβαρος e in latino barbarus (dalla parola onomatopeica con cui gli antichi greci indicavano gli stranieri letteralmente i “balbuzienti”) i quali erano coloro che non parlavano greco, e quindi non condividevano la cultura greca- è che i “nuovi” non hanno interesse nel comunicare con l’esterno, in particolar modo coi colleghi parlamentari o con la stampa.
Per il resto, anche questi nuovi barbari hanno “invaso la penisola” perché minacciati (riducendo tutti ai minimi termini si può scrivere che in questo caso sia stata l’incapacità dell’intera classe politica), guidati da un capo carismatico che con voce ferma conduce il suo esercito all’assalto del vecchio sistema, troppo malridotto per tentare una reazione: proprio come nel 166 dopo Cristo, quando le prime scorribande dei Longobardi decretavano la fine di un’era (quella dell’ impero-romano) e ne annunciavano una totalmente nuova (il medioevo).
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